La Corte Costituzionale, con la pronuncia n.
341 del 2006, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del'art. 69, sesto
comma, lettera a), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento
penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della
libertà), nella parte in cui prevedeva la competenza del magistrato di
sorveglianza «sui reclami dei detenuti e degli internati concernenti
l’osservanza delle norme riguardanti l’attribuzione della qualifica lavorativa,
la mercede e la remunerazione, nonché lo svolgimento delle attività di
tirocinio e di lavoro e le assicurazioni sociali», a seguito di questione di
legittimità proposta dal Magistrato di sorveglianza di Pisa, con ordinanza del
17 novembre 2005. Il Magistrato rimettente si trovava a decidere, in base alla
suddetta normativa, una domanda volta ad ottenere l’accertamento della natura
subordinata del rapporto di lavoro già intrattenuto tra il ricorrente ed
un’impresa privata (con prestazioni erogate all’interno dell’istituto penitenziario),
nonché della illegittimità del licenziamento intimato, con conseguente condanna
del datore di lavoro al pagamento di somme poiché, a seguito della
dichiarazione di incompetenza del Giudice del lavoro adito, la causa era stata
davanti a lui riassunta. Le principali perplessità esposte concernevano la
procedura descritta dall'art. 14-ter della L. Ord. Pen., limitante i
diritti sanciti dagli artt. 24 c. 2 e 111 c. 3 Cost. tanto con riguardo al
lavoratore-detenuto, escluso dalla diretta partecipazione al processo (di tipo
camerale e con un contraddittorio meramente cartolare), quanto con riferimento
al datore (l'amministrazione penitenziaria è solo ammessa a presentare memorie,
e il terzo eventualmente interessato quale controparte del lavoratore resta del
tutto escluso dal contraddittorio, pur essendo destinato, in ogni caso, a
rispondere, in via diretta o indiretta, della lesione dei diritti spettanti al
detenuto lavoratore). La Corte, investita delle questione, riconosce
l'illegittima violazione del diritto di difesa e del contraddittorio da parte
della norma richiamata, ed aggiunge come la stessa, costringendo
irragionevolmente le parti del processo regolato dall'art. 14-ter ad una
posizione sostanzialmente difforme e deteriore rispetto alle garanzie di tutela
garantite agli altri cittadini dall'ordinamento tramite l'accesso al rito del
lavoro, si ponesse altresì in contrasto con l'art. 3, c. 1, Costituzione.
Facendo un passo indietro, come risulta da
Cass., Sez. L, Sentenza n. 7711 del 23/04/2004,
l'applicazione dell'art. 69, per i reclami del detenuto concernenti
"l'attribuzione della qualifica lavorativa, la mercede e la remunerazione,
nonché lo svolgimento delle attività di tirocinio e di lavoro e le
assicurazioni sociali" poteva concernere solo le controversie introdotte
dopo la legge n. 663/86 (la quale, all'art. 21, aveva modificato la disciplina
nel senso da ultimo dichiarato illegittimo dalla Corte Cost.), laddove per
quelle anteriori sussisteva - in base al principio tempus regit actum - la
competenza del Pretore in funzione di Giudice del Lavoro, stante
l'assimilabilità del rapporto di lavoro del detenuto, nonostante le
particolarità della sua regolamentazione normativa, all'ordinario rapporto di
lavoro, e considerata la mancanza di previsione di uno specifico procedimento
di tutela giurisdizionale, in quanto il Magistrato di Sorveglianza provvedeva
sui reclami con un ordine di servizio, cioè con un atto amministrativo. La
stessa pronuncia, preceduta in conformità dalla sent. 26/2001 Cass. sez. U.,
riteneva che, a seguito delle modifiche operate dalla L. 663/86, la competenza
dovesse invece ritenersi devoluta in via esclusiva al Magistrato di
sorveglianza, il quale pronunciava ordinanza impugnabile soltanto per
cassazione, e, quindi, con un provvedimento avente natura di sentenza.
Tuttavia, la scarsa attinenza della disciplina
dell'art. 69 con i principi costituzionali non era sfuggita ai tribunali anche
prima della pronuncia del Giudice delle leggi, e contro i principi della S.C.
erano state pronunciate sentenze che proponevano interpretazioni originali e
più rispettose delle garanzie giurisdizionali, risolvendo pure l'apparente
conflitto tra l'art. 69 Ord. pen. e l'art. 409 c.p.c., che attribuisce le
controversie discendenti dai rapporti di lavoro alla competenza funzionale del
Giudice del lavoro. La Corte Appello di Roma – Sez.Lavoro,sent. 3.6.2004, accoglieva la tesi dottrinale secondo la quale affermato che il
rapporto di lavoro dei detenuti si affianca, non sovrapponendosi al rapporto
carcerario, ne conseguiva che la tutela attribuita al magistrato di
sorveglianza, interna all'organizzazione carceraria, e quella ordinaria
dell'art. 409 c.p.c. fossero tra loro alternative, nel senso che il lavoratore
detenuto avrebbe potuto perseguire l'una o l'altra secondo la regola electa
una via non datur recursus ad alteram. Sostenendo questa tesi, rigettava
l'appello proposto dal Ministero della Giustizia contro la sentenza con la
quale il Tribunale di Roma in funzione di giudice del lavoro l'aveva condannato
a somme di denaro a titolo di restituzione dei 3/10 della mercede dovuta per il
lavoro svolto durante la detenzione negli istituti penitenziari, ritenendo
insussistente il difetto di competenza per materia di quest'ultimo.
A seguito
della pronuncia della Consulta, appare ormai certo che le questioni di lavoro
del detenuto/lavoratore debbano essere necessariamente devolute al Giudice del
lavoro, anche alla luce di quanto affermato dalla Cassazione, Sez. L, Sentenza
n. 21573 del 15/10/2007, che ricomprende tra le controversie da questi
conoscibili quelle inerenti alla restituzione delle somme trattenute
dall'amministrazione penitenziaria sulla mercede per il lavoro svolto durante
la detenzione.
Consolidatosi
questo orientamento, la Suprema Corte interviene nuovamente sulla competenza,
stavolta territoriale, per individuarla nel Tribunale di Roma. La pronuncia
trae fondamento nel ricorso proposto avverso pronuncia dello stesso Tribunale,
il quale aveva dichiarato la propria incompetenza accogliendo l'eccezione del
Ministero della Giustizia che aveva indicato come il competente il Tribunale
nella cui circoscrizione si trovava l'istituto penitenziario presso il quale
era stata prestata l'attività lavorativa. Per il Tribunale di Roma, il rapporto
di lavoro del detenuto avrebbe i connotati di quello che si instaura con la
pubblica amministrazione, non essendo riconducibile ad un mero scambio tra
energie lavorative e retribuzione, ed essendo al contrario teleologicamente
orientato alla rieducazione del condannato; il criterio enunciato avrebbe, per
di più, consentito di risolvere in modo conforme al principio del buon
andamento il problema derivante all'Amministrazione dalle difficoltà di
conoscere in sede centrale le modalità specifiche della prestazione lavorativa
del detenuto e le particolarità che la connotano (frequenti turnazioni,
modificazioni della tipologia di lavoro; frazionamento per i vari spostamenti
da un istituto all'altro) consentendo, oltre tutto, la difesa diretta
dell'amministrazione tramite propri dipendenti a norma dell'art. 417 bis c.p.c.
La Cassazione nega, al rapporto di lavoro dei detenuti negli istituti di pena,
il carattere specificamente pubblico che determinerebbe l'applicazione del c. 5
dell'art. 413 c.p.c. svolgendosi tali prestazioni di lavoro - sia pure per il
perseguimento dell'obbiettivo di fornire alle persone detenute occasioni di
lavoro - nell'ambito di una struttura aziendale finalizzata alla produzione di
beni per il soddisfacimento di commesse pubbliche ed anche private, il cui
carattere limitato non ne impedisce l'utilizzazione come criterio per radicare
la competenza territoriale. Manca inoltre, in tale rapporto, la adibizione ad
un ufficio, nel senso di destinazione del lavoratore ad una specifica
precostituita struttura organizzativa dell'amministrazione, elemento questo
imprescindibile per l'operatività del quinto comma che pone la sede
dell'ufficio al quale il dipendente è addetto o era addetto al momento della
cessazione del rapporto come criterio di collegamento. Per tali ragioni, in
conformità al c. 2 dell'art. 413 c.p.c., il quale individua come fori
alternativi quello del Giudice nella cui circoscrizione il rapporto è sorto
ovvero si trova l'azienda o una sua dipendenza alla quale è addetto il
lavoratore o presso la quale egli prestava la sua opera al momento della fine
rapporto, precisa che il luogo in cui si trova l'azienda va rinvenuto in quello
in cui essa viene gestita, e in particolare presso il Dipartimento di
Amministrazione penitenziaria (poiché il rapporto di lavoro intercorre con il
Ministero della Giustizia) "quale centro di direzione e coordinamento
delle strutture aziendali che fanno capo ai singoli istituti", ferma
restando, naturalmente, la possibilità di adire i due fori speciali alternativi
(Cass., Sez. L, Ordinanza n. 18309 del 17/08/2009).
In un
diverso caso, il Tribunale di Roma, con ordinanza depositata il 30 luglio 2018,
dichiarava nuovamente la propria incompetenza ritenendo applicabile al lavoro
del detenuto il criterio di collegamento di cui al c. 5 dell'art. 413 c.p.c.;
proposto ricorso in Cassazione, l'opinione era sostenuta dal Ministero della
Giustizia, il quale insisteva sulla finalità di reinserimento sociale del
detenuto e sull'origine del rapporto,
scaturente non da un incontro di volontà delle parti stipulanti ma da un
obbligo di legge. La S.C. ribadisce la preposizione del detenuto ad un ufficio
— ovvero ad un compito comunque inerente la amministrazione attiva— ma con la
realizzazione di un rapporto di lavoro subordinato privato, seppure con talune
specialità legate allo stato di detenzione. Di ciò è evidenza nel fatto che la
medesima finalità viene indifferentemente perseguita anche attraverso la
costituzione di rapporti di lavoro alle dipendenze di soggetti privati.
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