martedì 21 gennaio 2020

Competenza nelle controversie in tema di lavoro carcerario.


La Corte Costituzionale, con la pronuncia n. 341 del 2006, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del'art. 69, sesto comma, lettera a), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui prevedeva la competenza del magistrato di sorveglianza «sui reclami dei detenuti e degli internati concernenti l’osservanza delle norme riguardanti l’attribuzione della qualifica lavorativa, la mercede e la remunerazione, nonché lo svolgimento delle attività di tirocinio e di lavoro e le assicurazioni sociali», a seguito di questione di legittimità proposta dal Magistrato di sorveglianza di Pisa, con ordinanza del 17 novembre 2005. Il Magistrato rimettente si trovava a decidere, in base alla suddetta normativa, una domanda volta ad ottenere l’accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro già intrattenuto tra il ricorrente ed un’impresa privata (con prestazioni erogate all’interno dell’istituto penitenziario), nonché della illegittimità del licenziamento intimato, con conseguente condanna del datore di lavoro al pagamento di somme poiché, a seguito della dichiarazione di incompetenza del Giudice del lavoro adito, la causa era stata davanti a lui riassunta. Le principali perplessità esposte concernevano la procedura descritta dall'art. 14-ter della L. Ord. Pen., limitante i diritti sanciti dagli artt. 24 c. 2 e 111 c. 3 Cost. tanto con riguardo al lavoratore-detenuto, escluso dalla diretta partecipazione al processo (di tipo camerale e con un contraddittorio meramente cartolare), quanto con riferimento al datore (l'amministrazione penitenziaria è solo ammessa a presentare memorie, e il terzo eventualmente interessato quale controparte del lavoratore resta del tutto escluso dal contraddittorio, pur essendo destinato, in ogni caso, a rispondere, in via diretta o indiretta, della lesione dei diritti spettanti al detenuto lavoratore). La Corte, investita delle questione, riconosce l'illegittima violazione del diritto di difesa e del contraddittorio da parte della norma richiamata, ed aggiunge come la stessa, costringendo irragionevolmente le parti del processo regolato dall'art. 14-ter ad una posizione sostanzialmente difforme e deteriore rispetto alle garanzie di tutela garantite agli altri cittadini dall'ordinamento tramite l'accesso al rito del lavoro, si ponesse altresì in contrasto con l'art. 3, c. 1, Costituzione.

Facendo un passo indietro, come risulta da Cass., Sez. L, Sentenza n. 7711 del 23/04/2004,  l'applicazione dell'art. 69, per i reclami del detenuto concernenti "l'attribuzione della qualifica lavorativa, la mercede e la remunerazione, nonché lo svolgimento delle attività di tirocinio e di lavoro e le assicurazioni sociali" poteva concernere solo le controversie introdotte dopo la legge n. 663/86 (la quale, all'art. 21, aveva modificato la disciplina nel senso da ultimo dichiarato illegittimo dalla Corte Cost.), laddove per quelle anteriori sussisteva - in base al principio tempus regit actum - la competenza del Pretore in funzione di Giudice del Lavoro, stante l'assimilabilità del rapporto di lavoro del detenuto, nonostante le particolarità della sua regolamentazione normativa, all'ordinario rapporto di lavoro, e considerata la mancanza di previsione di uno specifico procedimento di tutela giurisdizionale, in quanto il Magistrato di Sorveglianza provvedeva sui reclami con un ordine di servizio, cioè con un atto amministrativo. La stessa pronuncia, preceduta in conformità dalla sent. 26/2001 Cass. sez. U., riteneva che, a seguito delle modifiche operate dalla L. 663/86, la competenza dovesse invece ritenersi devoluta in via esclusiva al Magistrato di sorveglianza, il quale pronunciava ordinanza impugnabile soltanto per cassazione, e, quindi, con un provvedimento avente natura di sentenza.

Tuttavia, la scarsa attinenza della disciplina dell'art. 69 con i principi costituzionali non era sfuggita ai tribunali anche prima della pronuncia del Giudice delle leggi, e contro i principi della S.C. erano state pronunciate sentenze che proponevano interpretazioni originali e più rispettose delle garanzie giurisdizionali, risolvendo pure l'apparente conflitto tra l'art. 69 Ord. pen. e l'art. 409 c.p.c., che attribuisce le controversie discendenti dai rapporti di lavoro alla competenza funzionale del Giudice del lavoro. La Corte Appello di Roma – Sez.Lavoro,sent. 3.6.2004, accoglieva la tesi dottrinale secondo la quale affermato che il rapporto di lavoro dei detenuti si affianca, non sovrapponendosi al rapporto carcerario, ne conseguiva che la tutela attribuita al magistrato di sorveglianza, interna all'organizzazione carceraria, e quella ordinaria dell'art. 409 c.p.c. fossero tra loro alternative, nel senso che il lavoratore detenuto avrebbe potuto perseguire l'una o l'altra secondo la regola electa una via non datur recursus ad alteram. Sostenendo questa tesi, rigettava l'appello proposto dal Ministero della Giustizia contro la sentenza con la quale il Tribunale di Roma in funzione di giudice del lavoro l'aveva condannato a somme di denaro a titolo di restituzione dei 3/10 della mercede dovuta per il lavoro svolto durante la detenzione negli istituti penitenziari, ritenendo insussistente il difetto di competenza per materia di quest'ultimo.

A seguito della pronuncia della Consulta, appare ormai certo che le questioni di lavoro del detenuto/lavoratore debbano essere necessariamente devolute al Giudice del lavoro, anche alla luce di quanto affermato dalla Cassazione, Sez. L, Sentenza n. 21573 del 15/10/2007, che ricomprende tra le controversie da questi conoscibili quelle inerenti alla restituzione delle somme trattenute dall'amministrazione penitenziaria sulla mercede per il lavoro svolto durante la detenzione.

Consolidatosi questo orientamento, la Suprema Corte interviene nuovamente sulla competenza, stavolta territoriale, per individuarla nel Tribunale di Roma. La pronuncia trae fondamento nel ricorso proposto avverso pronuncia dello stesso Tribunale, il quale aveva dichiarato la propria incompetenza accogliendo l'eccezione del Ministero della Giustizia che aveva indicato come il competente il Tribunale nella cui circoscrizione si trovava l'istituto penitenziario presso il quale era stata prestata l'attività lavorativa. Per il Tribunale di Roma, il rapporto di lavoro del detenuto avrebbe i connotati di quello che si instaura con la pubblica amministrazione, non essendo riconducibile ad un mero scambio tra energie lavorative e retribuzione, ed essendo al contrario teleologicamente orientato alla rieducazione del condannato; il criterio enunciato avrebbe, per di più, consentito di risolvere in modo conforme al principio del buon andamento il problema derivante all'Amministrazione dalle difficoltà di conoscere in sede centrale le modalità specifiche della prestazione lavorativa del detenuto e le particolarità che la connotano (frequenti turnazioni, modificazioni della tipologia di lavoro; frazionamento per i vari spostamenti da un istituto all'altro) consentendo, oltre tutto, la difesa diretta dell'amministrazione tramite propri dipendenti a norma dell'art. 417 bis c.p.c. La Cassazione nega, al rapporto di lavoro dei detenuti negli istituti di pena, il carattere specificamente pubblico che determinerebbe l'applicazione del c. 5 dell'art. 413 c.p.c. svolgendosi tali prestazioni di lavoro - sia pure per il perseguimento dell'obbiettivo di fornire alle persone detenute occasioni di lavoro - nell'ambito di una struttura aziendale finalizzata alla produzione di beni per il soddisfacimento di commesse pubbliche ed anche private, il cui carattere limitato non ne impedisce l'utilizzazione come criterio per radicare la competenza territoriale. Manca inoltre, in tale rapporto, la adibizione ad un ufficio, nel senso di destinazione del lavoratore ad una specifica precostituita struttura organizzativa dell'amministrazione, elemento questo imprescindibile per l'operatività del quinto comma che pone la sede dell'ufficio al quale il dipendente è addetto o era addetto al momento della cessazione del rapporto come criterio di collegamento. Per tali ragioni, in conformità al c. 2 dell'art. 413 c.p.c., il quale individua come fori alternativi quello del Giudice nella cui circoscrizione il rapporto è sorto ovvero si trova l'azienda o una sua dipendenza alla quale è addetto il lavoratore o presso la quale egli prestava la sua opera al momento della fine rapporto, precisa che il luogo in cui si trova l'azienda va rinvenuto in quello in cui essa viene gestita, e in particolare presso il Dipartimento di Amministrazione penitenziaria (poiché il rapporto di lavoro intercorre con il Ministero della Giustizia) "quale centro di direzione e coordinamento delle strutture aziendali che fanno capo ai singoli istituti", ferma restando, naturalmente, la possibilità di adire i due fori speciali alternativi (Cass., Sez. L, Ordinanza n. 18309 del 17/08/2009).

In un diverso caso, il Tribunale di Roma, con ordinanza depositata il 30 luglio 2018, dichiarava nuovamente la propria incompetenza ritenendo applicabile al lavoro del detenuto il criterio di collegamento di cui al c. 5 dell'art. 413 c.p.c.; proposto ricorso in Cassazione, l'opinione era sostenuta dal Ministero della Giustizia, il quale insisteva sulla finalità di reinserimento sociale del detenuto  e sull'origine del rapporto, scaturente non da un incontro di volontà delle parti stipulanti ma da un obbligo di legge. La S.C. ribadisce la preposizione del detenuto ad un ufficio — ovvero ad un compito comunque inerente la amministrazione attiva— ma con la realizzazione di un rapporto di lavoro subordinato privato, seppure con talune specialità legate allo stato di detenzione. Di ciò è evidenza nel fatto che la medesima finalità viene indifferentemente perseguita anche attraverso la costituzione di rapporti di lavoro alle dipendenze di soggetti privati. 

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