domenica 2 febbraio 2020

Corte Cost. 189/19 (art. 570 bis c.p.)


La Corte Costituzionale, sent. n. 189/2019, riunisce i giudizi proposti con varie rimessioni, tutte aventi in comune argomenti inerenti l'art. 570 bis c.p., introdotto dal d. lgs. 21/2018 in sostituzione degli artt. 12 sexies, L. 898/70 e 3 L. 54/2006, contestualmente abrogati. La questione di legittimità veniva sollevata:

- dal Tribunale di Nocera Inferiore (per la parte della norma che non prevedeva la tutela dei figli di genitori non coniugati);

- dalla Corte d'appello di Milano (sia per i figli minori nati al di fuori del matrimonio che per i figli maggiorenni nati fuori dal matrimonio e senza colpa non economicamente autosufficienti -prova, quest'ultima, assai difficile, come notato dai relatori);

- dalla Corte d'appello di Trento (sempre con riguardo alla violazione degli obblighi di assistenza familiare da parte del genitore non coniugato);

- dal Tribunale di Civitavecchia (per i figli nati fuori dal matrimonio).

Argomentavano i giudici a quibus che la norma, così come formulata, aveva comportato la parziale abolitio criminis dell'omesso versamento dell'assegno periodico per il mantenimento, l'educazione e l'istruzione dei figli nati fuori dal matrimonio, in precedenza ricompresa, secondo l'interpretazione della Cassazione, nell'abrogato art. 3, L. 54/06, determinando la violazione degli artt. 3, 25, c.2, 30 e 76 Cost.

La Corte effettuava anzitutto un breve excursus:

- L'art. 570 c.p., c. 2, n. 2, originariamente prevedeva la pena della multa e reclusione per chi fa mancare i mezzi di sussistenza ai discendenti di età minore, ovvero inabili al lavoro, ovvero agli ascendenti o al coniuge non legalmente separato per sua colpa; la giurisprudenza, dopo aver applicato la disposizione ai soli figli riconosciuti, a seguito dell'equiparazione dei figli nati fuori dal matrimonio agli altri figli, è stata ritenuta operante anche per essi (Cass. pen. 51215/14).

- L'art. 12 sexies, L. 74/87, aggiunge l'applicabilità delle pene previste dall'art. 570 al coniuge che, a seguito della cessazione degli effetti civili del matrimonio, si sottrae all'obbligo di corresponsione dell'assegno stabilito in sede giudiziale in favore dell'altro coniuge o dei figli, e viene considerato dalla giurisprudenza applicabile anche al caso del mancato versamento dell'assegno divorzile stabilito in favore dei figli maggiorenni non inabili al lavoro ma non autosufficienti;

- L'art. 3, L. 54/06 prevedeva che le disposizioni dell'art. 12-sexies fossero applicabili alla violazione di obblighi di natura economica discendenti dalla sentenza di separazione dei coniugi; l'art. 4 della medesima legge, che le disposizioni in essa contenute si applicavano anche "ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati", facendo ritenere alla Cassazione che la sanzione penale dell'art. 3 potesse tutelare anche i figli nati fuori dal matrimonio (tranne che in una sentenza: la n. 2666/17 Cass. pen.).

I rimettenti chiarivano perché non fosse a loro avviso possibile estendere la portata dell'art. 570-bis c.p. all'omesso adempimento degli obblighi economici nei confronti dei figli nati fuori dal matrimonio: la norma individua solo il "coniuge" come soggetto attivo del reato ("Le pene previste dall’articolo 570 si applicano al coniuge che si sottrae all’obbligo di corresponsione di ogni tipologia di assegno dovuto in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio ovvero vìola gli obblighi di natura economica in materia di separazione dei coniugi e di affidamento condiviso dei figli").

La Corte Costituzionale rileva come l'art. 4 della L. 54/06 sia tuttora in vigore, e come la Cassazione ritenga esso sia all'oggi riferibile al nuovo art. 570-bis c.p., estendendosi dunque quest'ultimo anche ai figli nati fuori dal matrimonio (56080/18; 55744/18 et similia). Il Giudice delle Leggi ritiene tale interpretazione fondata e idonea a superare i dubbi di costituzionalità avanzati, pur notando che l'operazione ermeneutica ad essa sottesa, per quanto ineccepibile, non è certo di "solare evidenza" (si tratta di applicare il combinato disposto dell'art. 4, c. 2, L. 54/2006 e l'art. 8, d. lgs. 21/18, integrandole con l'art. 570-bis c.p.), in ciò contrastando con lo scopo dichiarato dal Legislatore nella relazione governativa allo schema di decreto legislativo recante "Disposizioni di attuazione del principio di delega della riserva di codice nella materia penale a norma dell'articolo 1, c. 85, l. q, L. 103/17", cioè quello di garantire una migliore conoscenza dei precetti e delle sanzioni. Auspicava dunque una riformulazione, nel senso indicato dalla Cassazione, dell'art. 570-bis c.p.

Testo della decisione da giurcost.org

martedì 21 gennaio 2020

Competenza nelle controversie in tema di lavoro carcerario.


La Corte Costituzionale, con la pronuncia n. 341 del 2006, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del'art. 69, sesto comma, lettera a), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui prevedeva la competenza del magistrato di sorveglianza «sui reclami dei detenuti e degli internati concernenti l’osservanza delle norme riguardanti l’attribuzione della qualifica lavorativa, la mercede e la remunerazione, nonché lo svolgimento delle attività di tirocinio e di lavoro e le assicurazioni sociali», a seguito di questione di legittimità proposta dal Magistrato di sorveglianza di Pisa, con ordinanza del 17 novembre 2005. Il Magistrato rimettente si trovava a decidere, in base alla suddetta normativa, una domanda volta ad ottenere l’accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro già intrattenuto tra il ricorrente ed un’impresa privata (con prestazioni erogate all’interno dell’istituto penitenziario), nonché della illegittimità del licenziamento intimato, con conseguente condanna del datore di lavoro al pagamento di somme poiché, a seguito della dichiarazione di incompetenza del Giudice del lavoro adito, la causa era stata davanti a lui riassunta. Le principali perplessità esposte concernevano la procedura descritta dall'art. 14-ter della L. Ord. Pen., limitante i diritti sanciti dagli artt. 24 c. 2 e 111 c. 3 Cost. tanto con riguardo al lavoratore-detenuto, escluso dalla diretta partecipazione al processo (di tipo camerale e con un contraddittorio meramente cartolare), quanto con riferimento al datore (l'amministrazione penitenziaria è solo ammessa a presentare memorie, e il terzo eventualmente interessato quale controparte del lavoratore resta del tutto escluso dal contraddittorio, pur essendo destinato, in ogni caso, a rispondere, in via diretta o indiretta, della lesione dei diritti spettanti al detenuto lavoratore). La Corte, investita delle questione, riconosce l'illegittima violazione del diritto di difesa e del contraddittorio da parte della norma richiamata, ed aggiunge come la stessa, costringendo irragionevolmente le parti del processo regolato dall'art. 14-ter ad una posizione sostanzialmente difforme e deteriore rispetto alle garanzie di tutela garantite agli altri cittadini dall'ordinamento tramite l'accesso al rito del lavoro, si ponesse altresì in contrasto con l'art. 3, c. 1, Costituzione.

Facendo un passo indietro, come risulta da Cass., Sez. L, Sentenza n. 7711 del 23/04/2004,  l'applicazione dell'art. 69, per i reclami del detenuto concernenti "l'attribuzione della qualifica lavorativa, la mercede e la remunerazione, nonché lo svolgimento delle attività di tirocinio e di lavoro e le assicurazioni sociali" poteva concernere solo le controversie introdotte dopo la legge n. 663/86 (la quale, all'art. 21, aveva modificato la disciplina nel senso da ultimo dichiarato illegittimo dalla Corte Cost.), laddove per quelle anteriori sussisteva - in base al principio tempus regit actum - la competenza del Pretore in funzione di Giudice del Lavoro, stante l'assimilabilità del rapporto di lavoro del detenuto, nonostante le particolarità della sua regolamentazione normativa, all'ordinario rapporto di lavoro, e considerata la mancanza di previsione di uno specifico procedimento di tutela giurisdizionale, in quanto il Magistrato di Sorveglianza provvedeva sui reclami con un ordine di servizio, cioè con un atto amministrativo. La stessa pronuncia, preceduta in conformità dalla sent. 26/2001 Cass. sez. U., riteneva che, a seguito delle modifiche operate dalla L. 663/86, la competenza dovesse invece ritenersi devoluta in via esclusiva al Magistrato di sorveglianza, il quale pronunciava ordinanza impugnabile soltanto per cassazione, e, quindi, con un provvedimento avente natura di sentenza.

Tuttavia, la scarsa attinenza della disciplina dell'art. 69 con i principi costituzionali non era sfuggita ai tribunali anche prima della pronuncia del Giudice delle leggi, e contro i principi della S.C. erano state pronunciate sentenze che proponevano interpretazioni originali e più rispettose delle garanzie giurisdizionali, risolvendo pure l'apparente conflitto tra l'art. 69 Ord. pen. e l'art. 409 c.p.c., che attribuisce le controversie discendenti dai rapporti di lavoro alla competenza funzionale del Giudice del lavoro. La Corte Appello di Roma – Sez.Lavoro,sent. 3.6.2004, accoglieva la tesi dottrinale secondo la quale affermato che il rapporto di lavoro dei detenuti si affianca, non sovrapponendosi al rapporto carcerario, ne conseguiva che la tutela attribuita al magistrato di sorveglianza, interna all'organizzazione carceraria, e quella ordinaria dell'art. 409 c.p.c. fossero tra loro alternative, nel senso che il lavoratore detenuto avrebbe potuto perseguire l'una o l'altra secondo la regola electa una via non datur recursus ad alteram. Sostenendo questa tesi, rigettava l'appello proposto dal Ministero della Giustizia contro la sentenza con la quale il Tribunale di Roma in funzione di giudice del lavoro l'aveva condannato a somme di denaro a titolo di restituzione dei 3/10 della mercede dovuta per il lavoro svolto durante la detenzione negli istituti penitenziari, ritenendo insussistente il difetto di competenza per materia di quest'ultimo.

A seguito della pronuncia della Consulta, appare ormai certo che le questioni di lavoro del detenuto/lavoratore debbano essere necessariamente devolute al Giudice del lavoro, anche alla luce di quanto affermato dalla Cassazione, Sez. L, Sentenza n. 21573 del 15/10/2007, che ricomprende tra le controversie da questi conoscibili quelle inerenti alla restituzione delle somme trattenute dall'amministrazione penitenziaria sulla mercede per il lavoro svolto durante la detenzione.

Consolidatosi questo orientamento, la Suprema Corte interviene nuovamente sulla competenza, stavolta territoriale, per individuarla nel Tribunale di Roma. La pronuncia trae fondamento nel ricorso proposto avverso pronuncia dello stesso Tribunale, il quale aveva dichiarato la propria incompetenza accogliendo l'eccezione del Ministero della Giustizia che aveva indicato come il competente il Tribunale nella cui circoscrizione si trovava l'istituto penitenziario presso il quale era stata prestata l'attività lavorativa. Per il Tribunale di Roma, il rapporto di lavoro del detenuto avrebbe i connotati di quello che si instaura con la pubblica amministrazione, non essendo riconducibile ad un mero scambio tra energie lavorative e retribuzione, ed essendo al contrario teleologicamente orientato alla rieducazione del condannato; il criterio enunciato avrebbe, per di più, consentito di risolvere in modo conforme al principio del buon andamento il problema derivante all'Amministrazione dalle difficoltà di conoscere in sede centrale le modalità specifiche della prestazione lavorativa del detenuto e le particolarità che la connotano (frequenti turnazioni, modificazioni della tipologia di lavoro; frazionamento per i vari spostamenti da un istituto all'altro) consentendo, oltre tutto, la difesa diretta dell'amministrazione tramite propri dipendenti a norma dell'art. 417 bis c.p.c. La Cassazione nega, al rapporto di lavoro dei detenuti negli istituti di pena, il carattere specificamente pubblico che determinerebbe l'applicazione del c. 5 dell'art. 413 c.p.c. svolgendosi tali prestazioni di lavoro - sia pure per il perseguimento dell'obbiettivo di fornire alle persone detenute occasioni di lavoro - nell'ambito di una struttura aziendale finalizzata alla produzione di beni per il soddisfacimento di commesse pubbliche ed anche private, il cui carattere limitato non ne impedisce l'utilizzazione come criterio per radicare la competenza territoriale. Manca inoltre, in tale rapporto, la adibizione ad un ufficio, nel senso di destinazione del lavoratore ad una specifica precostituita struttura organizzativa dell'amministrazione, elemento questo imprescindibile per l'operatività del quinto comma che pone la sede dell'ufficio al quale il dipendente è addetto o era addetto al momento della cessazione del rapporto come criterio di collegamento. Per tali ragioni, in conformità al c. 2 dell'art. 413 c.p.c., il quale individua come fori alternativi quello del Giudice nella cui circoscrizione il rapporto è sorto ovvero si trova l'azienda o una sua dipendenza alla quale è addetto il lavoratore o presso la quale egli prestava la sua opera al momento della fine rapporto, precisa che il luogo in cui si trova l'azienda va rinvenuto in quello in cui essa viene gestita, e in particolare presso il Dipartimento di Amministrazione penitenziaria (poiché il rapporto di lavoro intercorre con il Ministero della Giustizia) "quale centro di direzione e coordinamento delle strutture aziendali che fanno capo ai singoli istituti", ferma restando, naturalmente, la possibilità di adire i due fori speciali alternativi (Cass., Sez. L, Ordinanza n. 18309 del 17/08/2009).

In un diverso caso, il Tribunale di Roma, con ordinanza depositata il 30 luglio 2018, dichiarava nuovamente la propria incompetenza ritenendo applicabile al lavoro del detenuto il criterio di collegamento di cui al c. 5 dell'art. 413 c.p.c.; proposto ricorso in Cassazione, l'opinione era sostenuta dal Ministero della Giustizia, il quale insisteva sulla finalità di reinserimento sociale del detenuto  e sull'origine del rapporto, scaturente non da un incontro di volontà delle parti stipulanti ma da un obbligo di legge. La S.C. ribadisce la preposizione del detenuto ad un ufficio — ovvero ad un compito comunque inerente la amministrazione attiva— ma con la realizzazione di un rapporto di lavoro subordinato privato, seppure con talune specialità legate allo stato di detenzione. Di ciò è evidenza nel fatto che la medesima finalità viene indifferentemente perseguita anche attraverso la costituzione di rapporti di lavoro alle dipendenze di soggetti privati. 

giovedì 16 gennaio 2020

Assegnazione degli affari penali e principio del giudice naturale precostituito per legge (Cass. pen., sez. F., sent. n. 34244/10).

La Corte ritiene non fondate le censure di violazione delle regole in tema di precostituzione del giudice naturale in relazione ad un'asserita inosservanza delle disposizioni tabellari per l'assegnazione del procedimento al Giudice per le indagini preliminari.
Difatti, l'art. 33, c. 2, cpp, esclude l'attinenza alla capacità del giudice delle disposizioni sulla destinazione del giudice agli uffici giudiziari e alle sezioni, sulla formazione dei collegi e sull'assegnazione dei processi a sezioni, collegi e giudici, deve essere letta ed interpretata alla luce dei valori essenziali dell'ordinamento costituzionale: valori identificati nei principi di precostituzione del giudice per legge (art. 25, c. 1, Cost.) e terzietà e imparzialità del giudice (art. 111, c. 2, Cost.); deve ritenersi consolidato l'orientamento per cui, ai sensi dell'art. 33, c. 2, cpp, l'inosservanza delle norme di ordinamento giudiziario che disciplinano le tabelle degli uffici giudicanti (art. 7 bis ord. giud.) e i criteri per l'assegnazione degli affari penali (art. 7 ter ord. giud.) non dà luogo a questione di capacità del giudice e dunque a nullità assolute (artt. 178, lett. a e 179 cpp), tranne che nell'ipotesi di designazione arbitraria del giudice.

venerdì 10 gennaio 2020

Occhionero (intercettazioni con captatore informatico) - Cass. pen. sez. V, n. 48370/17.

Sono legittime le intercettazioni di comunicazioni informatiche o telematiche di cui all'art. 266 bis cpp effettuate mediante installazione di captatore informatico (c.d. trojan horse) all'interno di computer collocato in luogo di privata dimora.
Il secondo motivo di ricorso investiva l'utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni telematiche mediante captatore informatico (c.d. trojan), utilizzabilità ritenuta nel provvedimento impugnato distorcendo, a detta dei ricorrenti, i principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità nelle precedenti pronunce Virruso, Musumeci, Scurato. Sostenevano i ricorrenti che le Sezioni Unite Scurato avevano vietato, al di fuori dei procedimenti relativi a reati di criminalità organizzata, tutte le intercettazioni mediante strumento informatico effettuate in luogo di privata dimora (nella specie: captatore nel pc fisso dell'indagato collocato nella sua abitazione); contrariamente alla sentenza Virruso, che definiva in termini di prove atipiche siffatte captazioni, ritenevano le stesse non inquadrabili nell'ambito delle intercettazioni di flussi telematici ai sensi dell'art. 266 bis cpp (nei procedimenti relativi ai reati di cui all'art. 266 cpp -quali quelli che comportano la pena dell'ergastolo, della reclusione superiore nel massimo a cinque anni, i reati contro la p.a. per i quali è comminata la pena dell'ergastolo o la reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, reati in materia di armi e stupefacenti, atti persecutori eccetera- e a quelli commessi mediante l'impiego di tecnologie informatiche o telematiche è consentita l'intercettazione del flusso di comunicazioni relativo a sistemi informatici o telematici ovvero intercorrente tra più sistemi), in quanto i flussi telematici sarebbero propriamente dei dati in transito dal pc alla rete, mentre nel caso veniva realizzata la captazione in tempo reale di un flusso di dati intercorso su uno schermo o supporto, dando vita ad una perquisizione con sequestro della fotografia di un documento statico (screenshot), cioè di un flusso di dati e informazioni tra componenti dello stesso sistema informatico e non tra più sistemi.
La Corte di Cassazione precisa come la sentenza Scurato avesse consentito le intercettazioni di comunicazioni tra presenti con installazione del captatore informatico che segue i movimenti nello spazio dell'utilizzatore del dispositivo elettronico (come lo smartphone) limitatamente ai procedimenti in materia di criminalità organizzata, anche senza la preventiva individuazione dei luoghi e a prescindere dalla dimostrazione dell'attività criminosa in atto; a seguito della pronuncia, dunque, le intercettazioni tra presenti rimanevano possibili nei luoghi di privata dimora ove vi era fondato motivo di ritenere lo svolgimento dell'attività criminosa nonché per le intercettazioni telematiche ex art. 266 bis cpp diverse da quelle tra presenti in quanto aventi il duplice requisito di essere al contempo comunicative e tra presenti.
Inoltre, osserva la Corte, nel caso di specie la captazione era effettuata anche su un flusso di dati, come indicato nell'ordinanza, non potendo dunque trovare applicazione né la tesi dei ricorrenti né la distinzione, da questi richiamata, contenuta nella sentenza Virruso (n. 16556/09) tra flusso di comunicazioni (intercettazione ex art. 266 bis) e dati all'interno del pc (prova atipica); da ultimo, ricorda come in base alla Grassi e altri (n. 40903/16) l'acquisizione di dati presenti nell'hard disk e costituenti messaggi di posta elettronica conservati nella cartella in entrata/uscita è intercettazione.

giovedì 9 gennaio 2020

Termini per la proposizione dell'appello nel giudizio civile.

Appello
In base all'art. 325 c.p.c., il termine per proporre l'appello è di trenta giorni (termine breve per impugnare); questi decorrono, come precisato dall'art. 326 c.p.c., dalla notificazione della sentenza e sono perentori. Indipendentemente dalla notificazione, l'appello non può proporsi decorsi sei mesi dalla pubblicazione della sentenza (art. 327 c.p.c., termine lungo).

Appello incidentale
L'appello incidentale va proposto, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta (art. 343 cpc) e comunque nel termine di venti giorni prima dell'udienza fissata nell'atto di appello principale o differita in applicazione dell'art. 168 bis, c. 5, cpc (Mandrioli, id., vol. II, pp. 275 e 277). In caso di costituzione tardiva, l'appello è inammissibile.

(In)competenza per territorio nelle cause relative alle obbligazioni nascenti dal fatto illecito.

L'art. 18 cpc (foro generale delle persone fisiche), c. 1, prevede:
Salvo che la legge disponga altrimenti, è competente il giudice del luogo in cui il convenuto ha la residenza o il domicilio e, se questi sono sconosciuti, quello del luogo in cui il convenuto ha la dimora.
L'art. 19 cpc (foro generale delle persone giuridiche e associazioni non riconosciute), c. 1:
Salvo che la legge disponga altrimenti, qualora sia convenuta una persona giuridica, è competente il giudice del luogo dove essa ha sede. […] 
Nelle cause in materia di obbligazioni è anche competente (foro facoltativo, art. 20 cpc) il giudice del luogo in cui l'obbligazione è sorta o dev'essere eseguita: esiste dunque possibilità di scelta tra più giudici, tutti competenti (Mandrioli, Carratta, Corso di diritto processuale civile, XV ed., vol. I).

Ove il convenuto voglia eccepire l'incompetenza per territorio del giudice adito, ha l'onere di farlo, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta tempestivamente depositata (art. 38, c. 1, cpc); nei casi di competenza funzionale o competenza per territorio inderogabile individuati dall'art. 28 cpc, l'incompetenza è rilevabile anche d'ufficio, ma non oltre la prima udienza (art. 38, c. 3, cpc; Mandrioli, id., pp. 149 e 151).

mercoledì 8 gennaio 2020

Di Guardo e altri (intercettazioni con captatore informatico) - Cass. pen., sez. VI, sent. n. 15573/17.

Ai fini dell'utilizzabilità delle intercettazioni di comunicazioni tra presenti mediante l'installazione di un "captatore informatico", consentite nei soli procedimenti di criminalità organizzata, è ammissibile, da parte del tribunale del riesame, la riqualificazione come reato appartenente a tale categoria del fatto esposto nella richiesta di autorizzazione del pubblico ministero e nel provvedimento emesso dal G.i.p., in quanto ciò che conta è che il fatto, sebbene sussunto sotto altre figure di reato, sia qualificabile come delitto di criminalità organizzata.

Nel caso di specie, i ricorrenti affermavano che l'iscrizione, a loro carico, nel registro delle notizie di reato, per il capo di imputazione di cui all'art. 416 cp (associazione per delinquere: tre o più persone si associano per commettere delitti), era avvenuta successivamente alle captazioni, le quali dovevano dunque ritenersi inutilizzabili.

La Cassazione, dopo aver richiamato la sentenza Scurato nella parte in cui richiede sufficienti, sicuri e obiettivi elementi indiziari ai fini della qualificazione del fatto di reato quale fatto di criminalità organizzata (nel cui ambito va ricompreso l'art. 416 cp), enunciava il principio esposto nella massima: è ammessa la riqualificazione giuridica dei fatti da parte di un giudice diverso da quello che ha disposto l'intercettazione al fine di affermare la sussistenza dei presupposti di ammissibilità delle operazioni captative. Giudicava dunque ammissibile la riqualificazione giuridica dei fatti da parte del tribunale in sede di riesame, risultando irrilevante che l'iscrizione nel registro delle notizie di reato della fattispecie associativa fosse avvenuta dopo l'autorizzazione del peculiare strumento d'indagine che è l'intercettazione; unica condizione, affinché la soluzione proposta sia possibile, è che i fatti indicati nella richiesta del pubblico ministero e ritenuti sussistenti dall'autorizzazione del gip siano correttamente qualificabili a norma dell'art. 416 cp; e nessuna violazione del contraddittorio, o del diritto di difesa, ne deriva: la decisione del tribunale del riesame è sindacabile in sede di legittimità, ed anzi la misura coercitiva o interdittiva confermata ex art. 309, c. 9, cpp, può essere revocata all'esito dell'istanza di cui all'art. 299 cpp, all'esito di nuove deduzioni.
Ancora, il controllo sulla sussistenza dei presupposti per il legittimo svolgimento dell'attività di intercettazione è consentito anche nel corso dell'udienza preliminare e nel successivo giudizio di merito.

Tra i motivi della decisione, la Corte sottolinea la differenza tra la difettosità della motivazione (pur presente) e la motivazione radicalmente mancante, come ben enunciata dalle sez. U. Primavera, n. 216665/00: la difettosità della motivazione è integrata da una fattispecie di incompletezza, insufficienza, non perfetta adeguatezza, sovrabbondanza con slabbrature logiche, vizi che non negano la giustificazione ma la rendono non puntuale, e che sono emendabili dal giudice cui la doglianza sia prospettata, sia esso il giudice di merito che deve utilizzare i risultati delle intercettazioni ovvero il giudice dell'impugnazione.